Codice della Crisi e dell’Insolvenza: l’art. 16 “Il risanamento d’impresa: gli indici per la rilevazione della crisi e le tecniche di risanamento di bilancio”
MARIA LUCETTA RUSSOTTO
Università degli Studi di Firenze
IL CODICE DELLA CRISI E DELL’INSOLVENZA – L’ARTICOLO 16
“Il risanamento d’impresa: gli indici per la rilevazione della crisi e le tecniche di risanamento di bilancio”
Detta l’articolo 16, 1 comma del Codice della Crisi e dell’Insolvenza: “Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore e rilevabili attraverso appositi indici, con particolare riguardo alla sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi ed alle prospettive di continuità aziendale, nonché l’esistenza di significativi e reiterati ritardi nei pagamenti, tenuto conto anche di quanto previsto nell’articolo 27…”
Tali indici erano così indicato nella Legge 155/2017: “…prevedere che il requisito della tempestivita’ ricorra esclusivamente quando il debitore abbia proposto una delle predette istanze, entro il termine di sei mesi dal verificarsi di determinati indici di natura finanziaria da individuare considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidita’…”
Il fatto che la pre-crisi venisse individuata dalla Legge Delega mediante l’applicazione di tali indici, comportava l’inevitabile considerazione che gli indici descritti dalla norma sono da tempo superati nella dottrina aziendalistica di controllo di gestione. Infatti, con l’espressione “analisi di bilancio per indici” si identifica una tecnica di indagine che, attraverso la rielaborazione e lo studio critico dei valori e delle informazioni di bilancio, si prefigge di:
- comprendere la dinamica della gestione trascorsa, esaminata nella sua interezza o in alcuni suoi aspetti;
- esprimere un giudizio fondato in merito allo stato di salute dell’unità produttiva analizzata;
- formulare stime il più possibile fondate circa la presumibile evoluzione futura della dinamica aziendale.
Gli indici indicati dalla norma non sono in grado di pervenire a tali conclusioni secondo unanime dottrina aziendalistica; e se fossero stati presi tali indicatori quale misura della pre-crisi d’impresa, probabilmente più del 70% delle imprese italiane dovrebbero essere considerate in pre-crisi.
Si presume quindi che sia questo il motivo per il quale, nell’attuale stesura dell’articolo 16, tali indici siano stati rimossi a favore della più generica scrittura “appositi indici”. Tralasciando al momento, perché non relativo al contenuto del presente scritto, l’evidente fattispecie –ad avviso della scrivente- di ultra delega presente nell’articolo 16, il problema principale da porsi ora è cercare di capire quali possano essere gli appositi indici in grado di evidenziare e far emergere lo stato di pre-crisi dell’impresa.
L’elaborazione di modelli in grado di rilevare lo stato di crisi di un’impresa è sempre stato in dottrina un tema di forte interesse. La possibilità di avere strumenti atti a diagnosticare preventivamente i primi sintomi di uno stato di crisi di un’impresa per consentire ai vari stakeholders la ricerca e l’attuazione dei comportamenti correttivi necessari, è sempre stata molto ricercata.
Fondamentalmente la dottrina aziendalistica si è sempre basata su dei modelli divisibili in due macrocategorie: modelli qualitativi e modelli quantitativi.
I modelli qualitativi si basano sul presupposto che un’analisi fondata meramente su dati numerici in generale e su indici di bilancio in particolare presenti dei limiti piuttosto elevati sulla possibilità di poter avere un giudizio di merito sullo stato di salute dell’impresa analizzata.
Un modello qualitativo molto diffuso è l’ “A-score model“, elaborato da J. Argenti nel 1976, il quale si basa sulla seguente logica: le debolezze del management e le carenze a livello di sistema contabile (prima variabile) sono causa di errori (seconda variabile) che conducono ai sintomi del fallimento (terza variabile).
Attribuendo un punteggio ad ogni singolo elemento che compone le tre variabili indicate è possibile calcolare un indice (“A score”); se il valore che ne risulta è inferiore a 25 si ha una elevata probabilità di insolvenza.
La validità di questo modello, come già indicato, presenta forti limiti di attendibilità e non è mai stata testata in modo scientifico in quanto ha il difetto di essere influenzata in maniera troppo “soggettiva” nell’attribuzione dei punteggi.
I modelli quantitativi sono invece basati sull’applicazione di indici di bilancio che possono essere suddivisi in modelli “teorici” e modelli “empirici”.
I “modelli teorici” sono modelli che non sono mai stati utilizzati nelle analisi d’impresa in quanto riguardano l’applicazione a uno schema che può essere descritto come quello “dell’impresa ideale” ovvero un’impresa inesistente in quanto astratta e priva delle particolarità e peculiarità dei casi concreti; sono quindi indici che seguono una logica non concretizzabile e troppo semplicistica, in base alla quale un valore di liquidazione inferiore alle passività conduce inevitabilmente al default.
I “modelli empirici” utilizzano invece l’approccio induttivo e statistico su un campione di aziende significativo per trarre delle regole che possano essere applicate, con i correttivi individuali, in maniera sufficientemente generalizzata.
Di modelli empirici si possono citare quelli elaborati da: Beavel nel 1966, Altman nel 1968, Taffler e Tishaw nel 1977, Ezzamel, Brodie e Mar-Molinero nel 1987. Si ritiene necessario menzionare il “Modello di Alberici”, che ha trattato per primo le tematiche di analisi con un campione di imprese italiane.
Fra tutti quelli sopra indicati, ad avviso della scrivente un modello diagnostico adeguato è quello elaborato da Altman.
Lo “Z score model” di Altman ha la caratteristica di possedere un elevato tasso di affidabilità (percentuale di errore compresa tra il 15% ed il 25%), anche in situazioni contraddistinte da anomalie contabili (società prossime al dissesto che inquinano i risultati di bilancio con dati non veritieri per dissimulare il proprio status); al punto tale che a volte questo modello è stato utilizzato anche per capire se le scritture contabili erano state alterate.
Il principale punto di forza del modello riguarda la semplicità d’uso: è sufficiente, infatti, risolvere un’equazione di primo grado ed ottenere un valore (lo “Z score”, appunto) da comparare con altri parametri (cut off) per determinare se la società possa essere collocata nell’area di “presumibile insolvenza”, nell’area di “potenziale solvibilità” o nella c.d. “zona grigia” (grey area), in relazione alla quale non è possibile esprimere un giudizio definitivo, ma la cui appartenenza denota uno stato di salute economico-finanziaria precario.
Il modello dello Z-score, come la maggior parte dei modelli classificatori nell’ambito della diagnosi precoce del rischio di insolvenza aziendale, si basa sull’analisi statistica discriminante. Entrando nel merito si può dire che, permettendo di classificare col minimo errore un insieme di unità statistiche in due o più gruppi individuati a priori ( società fallite e non fallite ), sulla base di un insieme di caratteristiche note, si ottengono dei risultati che possono poi essere traslati sulla singola impresa per la verifica di valori che statisticamente si sono dimostrati essere discriminanti. Per elaborare dei valori significativi, area per area si identifica un campione di imprese che devono poi essere assegnate a uno dei due possibili gruppi sulla base di una serie di variabili, definite appunto discriminanti e rappresentate da indici di bilancio.
Analisi Discriminante Lineare : ( o = società fallite; x = società non fallite. Le medie di gruppo sono cerchiate ).
Per ottenerla si devono analizzare i seguenti aspetti:
- Aspetto descrittivo: si esplica nel costruire una regola di classificazione che permetta di individuare le caratteristiche delle unità statistiche che meglio discriminano tra i gruppi ;
- Aspetto predittivo: la classificazione di una nuova unità statistica, di cui non si conosce la provenienza, in uno dei gruppi individuati a priori;
- Errore di classificazione: tale aspetto è legato alla sovrapposizione dei gruppi. Infatti la probabilità che l’unità sia classificata in un gruppo diverso da quello di effettiva appartenenza, non può essere nulla.
La funzione statistica discriminante è quindi rappresentata dalla seguente equazione :
y = a1x1+a2x2+ …. + anxn
dove a1, a2, …, an rappresentano i coefficienti discriminanti della funzione e gli x1, x2, …, xn le variabili discriminanti da noi determinate.
Una volta effettuato la selezione delle aziende e il reperimento dei bilanci per gli esercizi considerati, si provvede ad analizzare la funzione discriminante originariamente elaborata da Altman per il suo Z-score.
Tale funzione classifica le variabili in cinque indici di bilancio relativi all’analisi della liquidità, della redditività, della leva finanziaria, della solvibilità e dell’attività .
Pertanto le variabili scelte sono pari a cinque, ciascuna rappresentativa dell’area dell’economia aziendale che deve esprimere.
Si usa la seguente procedura :
- osservazione della significanza statistica di ciascuna variabile in funzione di altri possibili indici, incluso il contributo all’analisi discriminante che ciascuna variabile indipendentemente apporta ;
- valutazione della correlazione di ciascuna variabile con le altre ;
- valutazione dei test di significatività e analisi dei risultati.
Le variabili discriminanti individuate da Altman nel suo studio originario e rielaborate per la realtà italiana delle PMI sono le seguenti :
X1 = (AC PC)/(AM+AI+RF+AC+DL)
X2 = (RL+RS)/TA
X3 = UON/(AM+AI+RF+AC)
X4 = PN/TP
X5 = RV/(AM+AI+RF+AC+DL)
Con:
AC = Attività Correnti
PC = Passività Correnti
AM = Immobilizzazioni Materiali
AI = Immobilizzazioni Immateriali
RF = Rimanenze Finali
DL = Disponibilità Liquide
RL = Riserva Legale
RS = Riserva Straordinaria
TA = Totale Attività
UON = Utile Operativo Netto
PN = Patrimonio Netto
TP = Totale Passività
RV = Ricavi di Vendita
X1 = esprime il valore delle attività liquide dell’azienda rispetto alla capitalizzazione totale. Risulta evidente che una società che va incontro a perdite operative consistenti avrà una forte riduzione delle attività correnti in relazione al totale delle attività. Tale indice è sicuramente il migliore fra gli indici di liquidità, fra i quali si ricordano il current ratio ed il quick ratio.
X2 = esprime la capacità dell’impresa di reinvestire i propri utili. Un’impresa neo costituita avrà certamente un indice minore rispetto ad un azienda di più antica costituzione; questo perchè non ha avuto ancora il tempo di costituire le proprie riserve: Nella valutazione del rischio di fallimento l’impresa giovane è sicuramente più penalizzata in quanto questa sua caratteristica costituisce una probabilità di fallimento maggiore dell’altra.
X3 = misura la vera produttività delle attività di un’impresa, depurate da qualsiasi fattore di leva finanziaria o fiscale. Per tale motivo detto indice risulta particolarmente appropriato nella definizione della probabilità di insolvenza e successivo fallimento.
X4 = mostra di quanto le attività di un azienda si possono ridurre prima che le passività totali eccedano le attività e si creino le condizioni per il fallimento. Per esempio, una società con un patrimonio netto pari a 1.000 e passività per 500 può sopportare una perdita del valore di due terzi del proprio attivo prima di divenire insolvente. Invece, se la stessa azienda avesse un patrimonio netto pari a 250 con lo stesso ammontare di passività , diverrebbe insolvente con una riduzione di solo un terzo del proprio attivo.
X5 = evidenzia la capacità di un azienda di generare ricavi con un determinato valore dell’attivo patrimoniale. Esso misura la capacità imprenditoriale di rapportarsi con la competitività del mercato di riferimento dell’azienda.
La funzione discriminante che se ne ricava (considerando a, b, c, d, e i risultati delle variabili sopra indicate) è:
Z = aX1+bX2+cX3+dX4+eX5
da cui si desumono i valori del cut off e della grey area. Tali valori servono per valutare lo stato di salute dell’impresa; infatti se l’impresa ottiene un risultato dello Z superiore al valore massimo è strutturalmente sana ; se lo Z risulta inferiore al valore minimo è destinata al fallimento, a meno di non modificare pesantemente la sua struttura economico-finanziaria ; se lo Z risulta compreso tra i valori minimo e massimo, necessita di cautela nella gestione.
Come si è visto, tutti i dati necessari per il calcolo dello “Z score” possono essere desunti dal bilancio d’esercizio; i principali pregi dello Z score model sono la semplicità di utilizzo e l’elevata capacità di comparazione nel tempo (variazioni year on year della stessa impresa) e nello spazio (raffronto tra imprese diverse). Possiede comunque anche dei limiti, identificabili in:
– non valuta gli intangibles di una società;
– è asettico rispetto alla congiuntura economica;
– non tiene conto dell’eventuale capacità di una società di ottenere finanza da soggetti terzi.
Concludendo si può dire quindi da una parte, attraverso una visione sostanzialmente aziendalistica, che Lo Z-score pur non rappresentando l’unica possibilità di valutazione dello stato dell’impresa (pre-crisi o no), è comunque un primo approccio per la verifica di cui all’articolo 16, 1 comma del Codice della Crisi e dell’Insolvenza; dall’altra che forse questa è la prima norma nella quale lo studio e l’analisi della stessa portano ad approfondimenti non solo giuridici ma anche squisitamente aziendalistici.
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