Fallimento e smaltimento dei rifiuti: Consiglio di Stato n. 3/2020

Come ben noto, lo smaltimento dei rifiuti è una delle peggiori problematiche che il Curatore deve affrontare. Ciò si accompagna ad una normativa in materia ambientale che non guarda in faccia alla disciplina civilistica e fallimentare ed una giurisprudenza amministrativa spesso molto ondivaga, ma che spesso si focalizza nel far prevalere la tutela ambientale su tutti gli altri interessi in gioco.

Di recente l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha emanato la sentenza n. 3/2020 (pubblicata il 26 gennaio 2021) con l’intento “di chiarire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 (con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di questa), pur se il curatore fallimentare – in un’ottica di continuità – ‘gestisce’ proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la disponibilità materiale”. In poche parole il quesito era duplice: CHI SMALTISCE?  CHI PAGA?

La sentenza, inoltre, ha cercato in maniera molto schematica di mettere un punto fermo su varie questioni. Tuttavia, ha omesso di affrontare alcuni temi che appaiono molto significativi.

Il principio

Il principio con cui si chiude la sentenza è ben chiaro: Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’articolo 192, D.Lgs. 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”. E già questo ai Curatori non farà certo piacere. In realtà, come vedremo di seguito ci sono anche alcuni arresti molto più apprezzabili.

Il Curatore non è il legale rappresentante dell’impresa fallita.

La giurisprudenza civile lo aveva ribadito innumerevoli volte, ma quella amministrativa spesso perdeva di vista questo importante principio: il Curatore non succede all’imprenditore fallito nel trattamento dei rifiuti, “non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico”.

Pertanto, “deve ritenersi … esclusa una responsabilità del curatore del fallimento, non essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo curatore”.

A molti Curatori può sembrare una considerazione banale, ma purtroppo finora la giurisprudenza dominante stava andando in senso contrario (vds. adunanza plenaria n. 10/2019).

L’ordine di rimozione

Sebbene il Curatore non sia responsabile e non succeda all’imprenditore nei suoi obblighi, secondo il Consiglio di Stato il soggetto destinatario dell’ordine di rimozione è il Curatore stesso. Infatti, “la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti …, ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato”.

Il focus si sposta dai rifiuti che devono essere smaltiti al bene immobile inquinato. Il Curatore non può detenere i rifiuti e neppure li acquisisce all’attivo del fallimento (non sono bene con un valore positivo), ma detiene il bene su cui i rifiuti sono ricoverati.

Pertanto, secondo i giudici, la Pubblica Amministrazione in base alla normativa ambientale (D.Lgs. 152/2006) deve disporre le misure appropriate (leggasi ordinanza di smaltimento) nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui sono collocati i rifiuti prodotti dall’impresa fallita.

Detenzione e possesso

Sempre secondo il Consiglio di Stato la distinzione che il nostro ordinamento giuridico fa tra detenzione e possesso non rileva, “ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati”. In buona sostanza, è il Curatore che gestisce il bene inquinato e, quindi, è lui che deve provvedere allo smaltimento dei rifiuti collocati su detto bene, sebbene non sia responsabile della produzione di detti rifiuti e indipendentemente dal titolo giuridico per cui egli gestisce tale bene.

In definitiva, viene fatto prevalere il diritto ambientale sul diritto civile e fallimentare (anzi, fregandosene altamente del possibile contrasto con la legislazione civile e fallimentare). Quello che conta è lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino del bene immobile inquinato, tutto il resto passa in secondo piano.

Chi paga lo smaltimento?

Oltre all’obbligo di azione, c’è poi il problema economico: chi paga?

La sentenza ricorda che alla base di tutto deve stare il principio “chi inquina paga”. L’attività d’impresa ha provocato inquinamento e quindi è coerente ritenere che i costi di eliminazione dell’inquinamento gravino sulla massa dei creditori, altrimenti si farebbero ricadere tali costi sulla collettività incolpevole.

In definitiva, le spese di smaltimento sono spese di procedura (o prededucibili) sostenute dalla curatorela.

E se non ci sono risorse? Se il fallimento non ha la liquidità disponibile per provvedere alla rimozione?

In questo caso i giudici rilevano che “si attiveranno gli strumenti ordinari azionabili qualora il soggetto obbligato (fallito o meno, imprenditore o meno) non provveda per mancanza di idonee risorse”. Sarà cioè il Comune ad intervenire direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale. Conseguentemente, il Comune avrà diritto di insinuarsi al passivo del fallimento per le somme anticipate con privilegio speciale ex art. 253 D.Lgs. 152/2006. In sostanza, in caso di spese di smaltimento sostenute dalla Pubblica Amministrazione, non si tratterebbe di spese prededucibili ma di crediti con privilegio speciale sugli immobili inquinati.

Tale conclusione appare del tutto estemporanea: non si capisce perché se il Curatore provvede direttamente allo smaltimento le relative spese siano prededucibili e, invece, quando il fallimento non ha risorse e provvede il Comune in via sussidiaria, queste spese non abbiano diritto alla prededuzione (magari, nell’ambito della prededuzione può essere riconosciuto il privilegio speciale citato).

E la mancata acquisizione del bene all’attivo? O il suo abbandono?

Come ben sappiamo la legge fallimentare all’art. 104-ter riconosce al Curatore la possibilità di non acquisire un bene all’attivo o rinunciare a liquidarlo se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente.

Quindi, come si concilia tale norma con i principi portati dalla sentenza e sopra esposti? Prevale la tutela dei diritti dei creditori o prevale quella ambientale? Oppure la tutela ambientale può essere fatta valere in altri modi?

Purtroppo, la sentenza non affronta il problema; anzi, si focalizza sul disposto dell’art. 42, co. III, l.f., laddove si tratta dei c.d. beni sopravvenuti (Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi).

In tal caso, il Consiglio di Stato conclude che tale disciplina (quella dell’art. 42) non può essere applicata perché il bene inquinato al momento del fallimento era già di proprietà dell’imprenditore per cui non può venir messa in discussione l’acquisizione. E’ indubbiamente vero, ma l’art. 42 ed i beni sopravvenuti non c’entrano proprio niente con la questione. Si tratta di stabilire se la Curatela possa rinunciare ad un bene inquinato, che reputa diseconomico per la procedura, perchè le spese di smaltimento appaiono superiori al valore del bene “risanato”. Oppure le esigenze di tutela ambientale prevalgono sulla tutela dei diritti dei creditori e quindi il Curatore resta comunque il destinatario dell’ordine di smaltimento.

Inoltre, il Consiglio di Stato sancisce una sorta di continuità temporale nella detenzione del bene inquinato che in virtù della dichiarazione di fallimento passa direttamente ed automaticamente dall’imprenditore fallito (proprietario) al Curatore (detentore).

Conclusione

A nostro avviso, la sentenza ha finito per far prevalere la disciplina ambientale sul resto del diritto. In presenza di un bene inquinato occorre procedere allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino del bene. Tale esigenza di tutela ambientale prevale su altri tipi di tutela dell’ordinamento giuridico (i.d. quella dei creditori). Tuttavia, in questo quadro si tratta di capire quali siano gli ambiti di manovra del Curatore in applicazione del diritto fallimentare.

In particolare:

  • il Curatore può ancora decidere di non acquisire un bene inquinato alla procedura?
  • o eventualmente può decidere di abbandonarlo successivamente? [in questo caso non c’è il rischio di una denuncia per abbandono di rifiuti, sebbene il Curatore non abbia responsabilità alcuna per la loro produzione, ma ne è diventato detentore?]
  • Il Comune è ancora legittimato ad emettere ordinanza a carico del Curatore per lo smaltimento dei rifiuti, se il bene è stato “non acquisito”?
  • Se il Curatore che non ha acquisito o abbandonato il bene riceve un’ordinanza dal Comune cosa può fare? [qui la risposta è semplice, fa ricorso al TAR facendo valere che il bene non fa parte del patrimonio fallimentare]
  • Il Curatore può abbandonare il bene dopo aver ricevuto l’ordinanza del Comune?

Ebbene le questioni aperte sono ancora molte e le incertezze che gravano in questa materia sono ancora lontane dall’essere dipanate.

 

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